Come ho già avuto modo di dire precedentemente, una delle espressioni più terribbili del razzismo che si sono succedute durante la storia è senza dubbio il nazzismo e con esso la Shoà...durante la Seconda guerra mondiale circa sei milioni di ebrei furono deportati nei campi di concentramento e uccisi brutalemente per il solo fatto di essere tali. A distanza di circa sessant'anni, ancora oggi si celebra la "giornata della memoria", per non dimenticare una delle più gravi e assurde violazioni dei diritti umani che la storia del mondo abbia mai conosciuto. La nostra "memoria" è aiutata in questo dalle tantissime testimonianze che i sopravvisuti a quella tragedia ci hanno lasciato, nonchè dalla documentazione di vario tipo che è venuta fuori negli anni per testimoniare ciò che è stato. Ricordiamo ad esempio il famoso "diario di Anna Frank", "Se questo è un uomo" di Primo Levi, "La notte" di Elie Wiesel e altri importanti documenti e opere letterarie. Nessuno dovrebbe ignorare i contenuti e il valore di queste testimonianze. In una società come la nostra, così frenetica e piena di egoismo, tutti dovremmo fermarci un attimo a guardare indietro e conoscere la sofferenza di chi è vissuto nel passato per vivere meglio nel futuro. E’ questo il significato della giornata della memoria, conoscere e ricordare quello che è stato, trarne dei validi insegnamenti ed evitare che ciò si verifichi nuovamente.
Se è vero che s'impara dai propri errori, l’umanità intera deve avere il coraggio di guardare in faccia i gravissimi errori commessi, solo così è possibile progredire, traendo dal passato i valori positivi e lasciandoci alle spalle quelli negativi che hanno generato la Shoà.
Ma c'è una storia, una tra le tante storie delle persone deportate e uccise in quel periodo che non è molto conosciuta e non ha avuto molto spazio fra le altre, ma che a mio parere merita di essere ricordata per l'insegnamento che se ne può ricavare. Io ho avuto modo di conoscerla al liceo e mi ha colpito particolarmente...ve la voglio raccontare, citandovi anche una frase della stessa protagonista nella quale è racchiuso il senso della sua storia e del suo insegnamento.
Etty Hillesum- La nonviolenza in Auschwitz
Dei circa sei milioni d'ebrei deportati e uccisi negli anni della Shoà (catastrofe), solo alcuni hanno avuto la forza o la possibilità di lasciarci delle testimonianze di ciò che è stato e che l’umanità non potrà mai dimenticare.
Una di essi è Etty Hillesum, nata in Olanda nel 1914 da una famiglia della borghesia intellettuale ebraica e morta ad Auschwitz nel 1943, una donna che ha saputo trasformare il suo dolore e quello della società nella quale viveva in saggezza e paradossalmente in gioia di vivere.
Ragazza brillante, intensa, con la passione della letteratura e della filosofia, si laurea in giurisprudenza e si iscrive quindi alla facoltà di lingue slave; quando intraprende lo studio della psicologia, divampa la seconda guerra mondiale e con essa la persecuzione del popolo ebraico che sarà allo stesso tempo causa della sua morte fisica e della sua rinascita spirituale. A testimonianza di ciò esiste un diario personale, che lei scrive durante gli ultimi due anni della sua vita: undici quaderni completamente ricoperti da una scrittura minuta, quasi indecifrabile, che abbracciano tutto il 1941 e il 1942.
Etty nasconde, sotto un aspetto vivace, una profonda infelicità, che le provoca oltretutto una serie di estenuanti malesseri fisici. Forse anche a seguito di carenze affettive ed educative dovute al burrascoso matrimonio dei suoi genitori, vive in quel periodo relazioni sentimentali complicate che la lasciano “lacerata interiormente e mortalmente infelice”.
Dopo tanti errori e tanta sofferenza, finalmente qualcosa d’importante e decisivo accade nella vita della giovane ebrea: è l’incontro con uno psicologo ebreo tedesco, Spier, molto più anziano di lei, che la cambia profondamente. Attraverso le contraddizioni di una relazione piuttosto complessa e ambigua, egli la guida in un percorso di realizzazione umana e spirituale, insegnandole a pregare e diventando un mediatore fra lei e Dio. Quel Dio che diventerà per Etty il centro della sua esistenza e la parte più intima di sé: “Quella parte di me, la più profonda e la più ricca in cui riposo, è ciò che io chiamo Dio” scrive lei stessa.
E’ proprio l'amore per Dio che la spinge a condividere pienamente la triste sorte del suo popolo, un gesto che per lei significa “donarsi a Dio e ai fratelli”.
Nel 1942, infatti, lavorando come dattilografa presso una sezione del Consiglio Ebraico, potrebbe sottrarsi alla deportazione e avere salva la vita; lei, invece, nella prima grande retata ad Amsterdam, si avvia al campo di sterminio con gli altri ebrei prigionieri, sperando di poter portare luce nella vita altrui con la sua forza interiore e rendere così giustizia alla vita.
Prima della sua partenza definitiva per Auschwitz, Etty sente che la sua fine è vicina, chiede così ad un’amica olandese di nascondere i suoi quaderni e di farli avere ad uno scrittore di sua conoscenza, alla fine della guerra.
I manoscritti, molto difficili da decifrare, a causa della grafia incomprensibile, passano per anni da un editore all’altro e solo nel 1981 sono finalmente pubblicati, permettendo ai lettori di tutto il mondo di conoscere la straordinaria esperienza di una persona “luminosa”, come l’hanno definita i sopravvissuti del campo che vissero con lei.
In uno dei suoi quaderni Etty scrive:
“Dappertutto c’erano cartelli che ci vietavano la strada per la campagna: ma sopra quell’ unico pezzo di strada che ci rimane c’è pur sempre il cielo, tutto quanto”. Cosa c’è di più bello e rassicurante che guardare il cielo? Persino in un momento difficile ci fa sentire vivi, ci ricorda la nostra appartenenza al mondo e quindi alla vita. Esso accomuna tutti, buoni e cattivi, ricchi e poveri, liberi o prigionieri: tutti noi viviamo sotto un unico immenso cielo. Nessuno ci può vietare di guardarlo, in qualsiasi posto noi ci troviamo e in qualsiasi momento, perché il cielo è sempre sopra la nostra testa, è sempre sopra la nostra vita, quasi per osservarla e proteggerla. Etty esprime in questa frase tutta la sua voglia di restare al mondo e di continuare la sua esistenza, anche in un momento difficile come quello che sta vivendo insieme al suo popolo. La sua libertà fisica è limitata, ma le basta guardare il cielo per sentirsi libera nell’anima; nessuno può impedirle di sognare, di sperare, di amare o, semplicemente, di alzare lo sguardo al cielo, è una libertà più importante di quella fisica, perché è una libertà che nessuno le può togliere.